di Laura Traldi Foto di Federico Ciamei – D – La Repubblica
Verde 2.0, istruzioni per l’uso. Dimenticate il giardino romantico, le rose, le camelie e le gardenie. Dimenticate le aiuole variopinte, le zinnie, gli astri e i bulbi in fiore. E cancellate il giardino minimal, con i suoi cespugli architettonici. Segnatevi invece questi nomi: buddleja, epatorum, verbena. Gli ingredienti-base per il verde all’avanguardia sono piante facili da reperire e curare, a bassissimo consumo idrico. Qualcuno cercherà di dissuadervi dicendovi che sono erbacce: in teoria ha ragione, ma non importa. Il futuro del verde sostenibile nelle città sarà, grazie alle erbacce, un po’ selvaggio, diffuso, condiviso e soprattutto low cost.
La crisi non c’entra. Più che allo spread, la diffusione di questa nuova filosofia è dovuta all’evoluzione del nostro modo di vedere la natura in città. Non più parchi e giardinetti come oasi verdi separati dall’asfalto, né siepi e aiule come commenti meramente estetici, ma spazi verdi come strumento di coesione sociale. Con una responsabilità ecologica ed economica decisamente nuova. Lo raccontano – a fatti, oltre che a parole – sette paesaggiste: Elena Grandi, Gaia Chaillet Giusti, Cristina Mazzucchelli, Elisabetta Margheriti, Margherita Brianza, Elisabetta Cereghini e Vittoria Tamanini. Sette landscape designer donne (e cosa c’è di più femminile della concertazione e del pragmatismo alla base di questa nuova visione?) proiettate a livello internazionale.
Il SEME DELLA GUERRIGLIA
In testa hanno tutte il ricordo della newyorkese Liz Christy, che nel 1973 inventò il guerrilla gardening lanciando bombe di semi in terreni lasciati in disuso, e del francese Gilles Clément, che teorizzò nei primi anni Duemila la bellezza del Terzo Paesaggio, quello sottratto all’azione umana. E poi tutte hanno un sogno: un verde urbano (sostenibile) che sia un diritto per tutti. Anche di chi un pezzo di terra non ce l’ha.
La prima scommessa sono quindi i giardini condivisi: terreni pubblici abbandonati al degrado che associazioni di volontari, armati di zappa e badile, occupano e trasformano in aree verdi aperte a tutti. Non sono una novità, certo: in Italia ce n’è parecchi da anni. Spesso hanno nomi da favola: il Giardino degli Aromi, l’Atelier delle Verdure, le Rape Metropolitane. Ma il più delle volte, gestirli non è affatto fiabesco: avete mai provato a bagnare anche solo 30 metri quadrati con un innaffiatoio perché non c’è un punto acqua?
COS’È UN JARDIN PARTAGÉ?
Ora tutto cambierà. Il Comune di Milano ha infatti firmato lo scorso maggio una Carta, creata sulla falsariga di quella che da anni esiste a Parigi (dove i jardins partagés hanno un successo enorme), che renderà più semplice creare un giardino comunitario e prendersene cura.
«Il Comune si farà carico della pulizia dell’area e dell’allacciamento alla rete idrica. Alle associazioni spetterà impegnarsi a tenere aperto il giardino, organizzare pratiche di gardening ed eventi pubblici», dice Elena Grandi, editor di libri di professione e attivista verde per passione. Da quando è approdata l’anno scorso in Consiglio di Zona 1, dove è presidente della Commissione verde, si è adoperata in ogni modo per trasformare Milano in una nuova Parigi. «Almeno in tema di giardini condivisi». Al Comune la proposta è piaciuta. Nessuno aveva in mente la storia del prete Lemire (che nel 1896 tolse il bicchiere di assenzio dalle mani di centinaia di lavoratori di Cambrai, coinvolgendoli nei primi giardini operai della storia), ma il ruolo aggregante dei jardins partagés di Parigi di sicuro sì: nella delibera si parla di «luoghi aperti che incoraggiano l’interazione tra le generazioni e le culture. E infatti. «Ci lavorano persone che diversamente, nella vita di tutti i giorni, non si incontrerebbero mai», dice Grandi. «Invece qui condividono scopi, fatica fisica e risultati concreti: ci sono il professionista, il disoccupato, la casalinga, l’immigrato. A Parigi i jardins partagés sono oasi di armonia».
La stessa che si aspettano Margherita Brianza, Elisabetta Cereghini e Vittoria Tamanini il 22 settembre a Milano: quando, in piazza Cairoli, sarà possibile per chiunque, (previa iscrizione su milanoparkingday.over-blog.com), trasformare gli stalli dei parcheggi in giardinetti fai-da-te. L’iniziativa si chiama Parking Day e parte nello stesso momento in tutto il mondo (ci saranno anche collegamenti skype). «No, nessuna occupazione illecita di suolo pubblico: il Comune è dalla nostra parte». Quanto all’impossibilità di parcheggiare in piazza, «che saranno mai 20 spazi? Un disagio minimo, che dura solo un giorno». Come anche i giardini, del resto. Dunque a che servono? «A mostrare a tutti che la città potrebbe avere un volto simile a quello che ciascuno di noi sogna. E alla città che di abitanti pronti a mettersi in gioco per una migliore qualità della vita ce ne sono tanti».
«È vero, la gente ha voglia di impegnarsi e queste iniziative vanno nella direzione giusta. Ma il traguardo è ancora lontano», sottolinea Gaia Chaillet Giusti, paesaggista di fama internazionale, blogger (su linkiesta.it) e vicepresidente della commissione in cui lavora Elena Grandi. Per Gaia quello che serve è un’evoluzione nel modo di realizzare il verde cittadino, «paralizzato da un approccio ottocentesco, che non tiene conto delle urgenze economiche ed ecologiche di oggi». Un esempio negativo? Le aiuole fiorite. Proprio quelle di cui tanti cittadini vanno orgogliosi, amate anche dai turisti. «Alla gente piace quello che è abituata a vedere. Ma pochi sanno che i bulbi vanno piantati due-tre volte l’anno, curati e bagnati di continuo, e raggiungono costi esorbitanti. Non sono una fanatica: va benissimo averli nei luoghi di rappresentanza. Ma servono situazioni meno formali, con erbacee, graminacee: piante più semplici da curare, che richiedono poca acqua. E più belle, anche, perché appartengono davvero a questi luoghi. Non mi piace parlare della necessità di educare le persone a un nuovo tipo di bellezza, però è quello che bisognerebbe fare per un verde sostenibile».
GRAMINACEE SUPERSTAR
Dare la possibilità di avvicinare il grande pubblico a un’idea del bello più contemporanea e naturale era uno degli scopi del Parco delle Erbe Danzanti, sul lago d’Iseo, a Paratico (Brescia). Il progetto, di Cristina Mazzucchelli (al momento è la coordinatrice dell’unico progetto italiano in mostra al Festival di Chaumont, fino al 21 ottobre), è stato applaudito dall’amministrazione: non solo il giardino è low cost, ma è servito anche come strumento di marketing territoriale, cambiando il destino del paese. In passato, infatti, a Paratico ci si andava solo per parcheggiare l’auto. «Non aveva un centro in riva al lago, quindi veniva snobbato. Si lasciava la macchina e si attraversava il ponte che portava a destinazione: il villaggio di Sarnico, proprio di fronte». Ora i turisti accorrono grazie al suo giardino che incanta, perché sembra in perenne movimento: le graminacee sono sagome che fluttuano al vento, le erbacee perenni sbocciano in un carosello di fiori, le ninfee bianche nelle vasche in pietra ricalcano in miniatura il paesaggio lacustre. «È un parco didattico. Ci si va per godersi il lago, incorniciato da una natura armonica ma anche selvaggia, diversa da quella tradizionale fatta di cacofonie di colori sgargianti. Ma ci si ferma anche per conoscere le piante: tutte specie comuni che la gente non è abituata a vedere in un giardino pubblico. Grazie a piccoli testi esplicativi, chiunque le può conoscere, e magari anche rubare idee per riprodurre certe soluzioni nel proprio giardino o terrazzo».
«Sono anni che auspichiamo un paesaggio sostenibile, nel pubblico come nel privato», dice Elisabetta Margheriti, che insieme alle sorelle gestisce uno dei più grandi e attivi vivai italiani, Torsanlorenzo, nei pressi di Roma. «Il verde deve evolversi. La contemporaneità, oggi, si traduce in scelte strategicamente green, con piante dalla buona rusticità, ridotte esigenze idriche e capacità di prosperare anche in terreni poveri e asciutti. Come il limoniastrum monopetalum, la lantana camara, la genista, il myrtum. Per alcune varietà si possono sempre accostare, alle specie mediterranee, quelle australiane e sudafricane, vere regine del giardino a basso impatto e costi di manutenzione». Qualche nome? Kunzea, pimelea, leptospermum.
Quando un colosso come Torsanlorenzo (650 ettari di produzione, 5700 specie e varietà) parla, i professionisti ascoltano. E così, per la prima volta, il Padiglione Italia alla Biennale di architettura di Venezia quest’anno apre con 800 metri quadrati di felci, edere e pungitopo: un sottobosco tipicamente italiano, super resistente e poco assetato, realizzato da Torsanlorenzo. Un perimetro vivo, che disegna lo spazio facendolo respirare. E noi, con lui.
(Foto ag. Luzphoto)
(Fonte: D – la Repubblica)